Viaggio a Varsavia

Attratto dal Festival Internazionale di pianisti che si esibiscono in una serie di concerti di strada su musiche di Chopin, mi sono recato a Varsavia per inebriarmi delle note che il grande compositore ha qua creato, immerso nell’atmosfera magica della città dell’epoca.

Ma a parte le musiche e i concerti, di cui parlerò in altra sede, la mia permanenza in questa magica città ha anche avuto bisogno di rifornimento per il mio stomaco sempre vuoto, per il mio palato bisognoso di nuovi sapori e per la mia gola asciutta.

Le occasioni non sono affatto mancate dal momento che la città dispone di numerosi locali che offrono di tutto: dal cibo locale alle diverse offerte internazionali, cucina italiana inclusa.

La maggiore concentrazione è indubbiamente nella città vecchia, Stare Miasto, per la maggior parte concentrati nella piazza del mercato dove il richiamo dei turisti e dei visitatori è amplificato anche grazie all’architettura delle coloratissime case e della fontana, ma numerosi sono anche i locali disseminati in tutta la città che offrono menu sia tradizionali che internazionali.

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Stabilire quale sia migliore di altri e quali tipi di piatti assaggiare, si è rivelata una scelta non da poco ma dal momento che in una città straniera ci si reca anche per conoscere meglio gli usi ed i costumi locali, la mia scelta si è quasi subito indirizzata verso il cibo polacco tradizionale, ben cosciente che le tante invasioni subìte nei secoli dalla Polonia, hanno comunque condizionato notevolmente l’etimologia dei piatti che oggi mostrano tutte le influenze e le trasformazioni acquisite, comprese quelle italiane che risalgono al 1500 quando molti cuochi italiani furono invitati dalla regina Bona Sforza e le cui ricette entrarono a far parte della cucina polacca.

Confortato da un cambio Euro/Zloty (la locale moneta polacca) molto favorevole, non mi sono curato minimamente dell’eleganza dei locali dove ho cenato o pranzato, per altro tutti molto ben arredati e con personale molto efficiente e in grado di parlare diverse lingue straniere, ma ho valutato le diverse offerte in menu prima di accomodarmi.

In Polonia il pasto principale è a pranzo

Si usa iniziare con una zuppa particolare, che chiamano “barszcz” che è un brodo molto speziato di barbabietola rossa con dei ravioli immersi, con una farcia di carne di maiale. Sapore deciso, dolce e speziato con coriandolo e cannella.

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Altra zuppa molto gustosa è la “kapusniak” a base di cavoli. Ho assaggiato anche la “zurek” che è una minestra molto intensa a base di farina di segale, dal deciso gusto acido e coinvolgente.

Una menzione particolare meritano i “pierogi”, proposti da tutti i ristoranti e che somigliano moltissimo ai nostri ravioli. Vengono farciti con carne di maiale, di piccione, di funghi, di verdure diverse o di formaggio. I “pierogi” vengono proposti a numero (3, 9, 11) a seconda dell’appetito del commensale e vengono serviti con accompagnamento di salse di diversi tipi (creme di formaggio, di burro fuso speziato, fondo di cottura di brasati o arrosti, emulsione di olio e aceto con spezie e semi di aneto e sesamo).
Molto gustosi ma conviene limitarsi nel numero se si ha intenzione di proseguire a mangiare.

Passando ai secondi…

Il principe resta il “bigos” il tradizionale stufato di carne di manzo, con cavoli e crauti con aggiunta di prugne secche. Il “gulasch” viene comunque proposto ma non essendo un piatto polacco, bensì ungherese, ho preferito limitarmi.

Altro piatto tradizionale è il “golabki” (ha una pronuncia totalmente diversa) che altro non è che un involtino di foglie di cavolo ripieno di riso e carne di maiale, cotto al vapore oppure immerso nella zuppa di barbabietole rosse e servito con le immancabili patate arrostite.

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Anche il pesce è abbastanza diffuso, sopra tutto pesce di acqua dolce proveniente dalla Vistola, il fiume che bagna Varsavia e che è uno tra i più importanti della Polonia.

Uno dei piatti che ho assaggiato è la “karp” la classica carpa che a Varsavia viene proposta in gelatina oppure fritta. Gustosa è dire poco ma capisco che il gusto è personale. A me piace moltissimo il pesce e vivendo in una città abbracciata dal mare, i pesci di acqua dolce non sono così frequenti, quindi ne ho approfittato… abusando un po’.

E infine i dolci.

La Polonia ha una tradizione prettamente popolare nel confezionamento dei dolci, molti a base di miele e di frutta secca. Le torte e le creme sono decisamente più europee e l’offerta locale ne risente moltissimo ma qualche chicca si riesce sempre a gustare.

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Su tutti il “pierniki” un dolce assolutamente coinvolgente con il suo profumo di papavero (cosparso di semi) e di spezie, ricoperto di miele che riempie il palato e invoglia a gustarne ancora. Ho assaggiato anche il “sernik”, un dolce a base di formaggio fuso, che ho trovato eccellente ma troppo assimilabile alla cheese cake.
L’ultimo assaggio è stato il “makowiec” un tortino anche esso a base di semi di papavero.

L’offerta di vini è discreta ma troppo familiare: solo vini francesi e italiani.

Molti i cocktail proposti ma la vera regina è la birra.

La birra polacca ha ricevuto una sorta di paternità dalla Germania fin dalle prime invasioni e ha mantenuto un certo grado di pastosità e di gradazione. Una delle birre più diffuse è la “Tyskie” una pilsener storica che è anche una delle poche esportate nel mondo ma dopo aver assaggiato una birra artigianale mi sono fermato solo a quella.

Si tratta della “Kozlak” 6,6% di grado alcolico e stile dunkel bock, risalta il malto e il sapore è deciso ma non invadente. Viene prodotta in quantità limitate e in altre lavorazioni con gradazioni che salgono fino ai 10.
Ottima e insostituibile.

Il mio viaggio è finalmente giunto al termine

Torrone con la giuggiolena, per un Natale tutto siciliano.

Uno dei tradizionali dolci siciliani per eccellenza, che si preparano appositamente per le feste natalizie, è il torrone con la giuggiolena.

Così viene chiamato il seme di sesamo, protagonista principale del torrone forse più conosciuto in Sicilia e non solo.

In dialetto sarebbe “u torrone cu a ghigghiulena” o “cubaita”.

Il dolce è facile da realizzare, veloce nella preparazione e divertente da consumare.

Perché divertente? Beh, siete mai riusciti a mangiare qualcosa di molto duro senza fare buffe espressioni, senza spalancare e storcere la bocca come se foste un cagnolino alle prese col suo osso o senza arricciare il naso e strizzare gli occhi per lo sforzo? Io no!

Questo è un dolce godurioso, ma, come scrive Andrea Camilleri nel suo Elogio della cubaita dell’Antico Torronificio Nisseno, anche da meditazione, perché non va aggredito, “va lasciato ammorbidire tra le labbra”.

Ingredienti:
250 g zucchero semolato
60 ml miele millefiori
150 g semi di sesamo
50 g mandorle con la buccia
30 g bucce candite di arancia
un limone o olio di semi per stendere il composto.

Preparazione:
In una padella antiaderente mettete lo zucchero e il miele e lasciate sciogliere sino a quando non avrete più grumi e il composto risulterà liquido e dorato (attenzione a non farlo bruciare, appena spariranno i grumi spegnete il fuoco).

Aggiungete i semi di sesamo, le mandorle e le bucce candite di arancia e mescolate bene.

Versate il tutto su un piano, stendendo il composto a uno spessore tra i 5 mm e 1 cm massimo.
L’ideale sarebbe farlo su un ripiano di marmo leggermente unto d’olio, ma se non l’avete fate come me, utilizzate un foglio di carta forno e appoggiatelo se possibile su una tavola di legno.

Per stendere la cubaita potete usare una spatola unta oppure posizionate sopra un altro foglio di carta forno e procedere col matterello.
In alternativa tagliate a metà un limone, infilzatelo con una forchetta dalla parte della buccia e passatelo premendo sulla superficie del composto, così facendo darete aroma e luciderete maggiormente la superficie.

Quando la cubaita sarà fredda tagliatela a pezzi, la tradizione li vorrebbe romboidali, da cui il nome cubaita.

Durante questa fase fate attenzione: il vostro dolce sarà piuttosto duro ma per tagliarlo basta un coltello dalla lama sottile e ben affilata.

Non serve nemmeno che facciate un taglio completo: vi consiglio di tracciare un solco e poi rompere con le mani.

Spaghetti con uova di pesce spada

Nella dispensa casalinga ho ancora alcuni ricordi dell’ultimo viaggio settembrino in Sicilia.

Tra i tanti, anche un prodotto particolare, difficilmente reperibile qua a Genova e probabilmente poco conosciuto anche dalla maggior parte delle persone: “le uova di pesce spada”.

In genere in Sicilia si usa acquistare la sacca fresca di uova ma il periodo non è certamente quello giusto dal momento che la passa (il periodo di migrazione dei pesci) avviene tra marzo ed aprile.

In ogni caso, mi sono assicurato il prodotto acquistandolo in una pescheria di Noto, la Ionica Pesce di proprietà di Giuseppe Puglisi, un carissimo amico che tra le tante attività collaterali quali il chitarrista, il cantante rock, l’attore, il padre amorevole e il marito consapevole (meglio chiedere direttamente alla di lui moglie, comunque), gestisce la pescheria di famiglia in quel di Noto, con annessa attività di catering e di vendita di prodotti trasformati.

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Il piatto in se ha una antica origine trapanese ma si è ben presto diffuso in quasi tutto il perimetro del litorale siciliano.
Appannaggio della cucina povera siciliana, dove ai pescatori veniva concesso di portare a casa le classiche frattaglie e le parti di scarto degli spada che prima di essere venduti al mercato, venivano puliti spesso direttamente a bordo delle spadare.
Ma come tutte le ricette provenienti dalla cucina povera, la sua diffusione è stata rapida sopra tutto nelle città affacciate sul mare e dove le flotte dei pescherecci, delle piccole barche e delle spadare erano maggiormente concentrate, portando anche ad una diversificazione con variazioni degli stessi ingredienti usati per la preparazione della ricetta.

In effetti nel trapanese il piatto viene presentato come “linguine con le uova di pesce spada” ed include una serie di ingredienti, tra cui il pomodorino, in più rispetto allo stesso piatto presentato nel messinese, dove al posto delle linguine vengono usati gli spaghetti e il pomodoro è del tutto assente.

Nel siracusano e nel ragusano, invece, il pomodorino riappare ed è predominante con la scelta del ciliegino di Pachino, mentre a Ragusa e fino a Sciacca (siamo già nell’agrigentino), il pomodorino suggerito è il datterino di Vittoria. Inoltre vi sono anche il vino bianco e il peperoncino.

La riscoperta del piatto in se e delle varianti negli ingredienti, è oggi avvenuta grazie alla proposta fatta dai giovani chef formatisi alle nuove idee proposte nei diversi istituti alberghieri ed alle diverse specializzazioni conseguite, con la convinzione che la riscoperta dei piatti della tradizione locale o regionale possa essere idea vincente per coinvolgere i clienti e i “gastronomadi” turistici e per affermare la propria impronta e il proprio modus operandi.

Ma veniamo, quindi alla preparazione che, come quasi tutti i piatti della cucina povera a base di pesce, prevede tempi ristretti e veloci di cottura.

Spaghetti con uova di Pesce Spada
Ingredienti per 4 persone:
Spaghetti n° 4 o 5 (le quantità pro capite stabilitele voi)
200 gr. di uova di pesce spada (Ionica Pesce Srl)
200 gr. pomodorini ciliegino o datterino
due spicchi di aglio
1/2 cipolla dorata
½ bicchiere di vino bianco secco
1 peperoncino
un ciuffo di prezzemolo fresco
olio evo (l’olio evo dei Monti Iblei è perfetto)
sale (meglio se di Mozia o comunque integrale delle saline di Marsala) pepe nero in grani da tritare al mortaio
mollica di pane raffermo, grattugiata e tostata con aggiunta di foglie di alloro.

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Preparazione:
Mettere l’acqua per la pasta sul fuoco e mandarla a bollore. Nel frattempo che si attende che l’acqua per la pasta raggiunga il bollore, soffriggere in una padella i due spicchi di aglio, la cipolla precedentemente tritata, il peperoncino e, dopo qualche minuto, la dadolata di pomodorini, lasciando andare a fiamma vivace per una decina di minuti, sfumando con il vino bianco e aggiustando di sale.
A questo punto si versano le uova di pesce spada e si amalgamano al sughetto girando il tutto delicatamente con un cucchiaio di legno per un paio di minuti al massimo.

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In caso aggiungere qualche cucchiaiata di acqua di cottura della pasta per rendere ancora più cremoso il sughetto stesso.
In un’altra padella si lascia tostare la mollica di pane grattugiata con l’aggiunta di un paio di foglie secche di alloro e un pizzico di pepe nero tritato al mortaio.
Appena la mollica risulta ben tostata, si tolgono le foglie di alloro e si versa il tutto in una ciotola.

Appena gli spaghetti sono al dente, si scolano e si versano nella padella contenente il sughetto, spolverizzando un po’ di mollica tostata e con l’aggiunta di una generosa manciata di prezzemolo tritato grossolanamente. Si amalgama ben bene il tutto aggiungendo qualche altro cucchiaio di acqua di cottura della pasta e servendo immediatamente a tavola.

La giornata europea del gelato artigianale

Oggi, 24 Marzo 2015, si festeggia la giornata europea del gelato artigianale, organizzata da Artglace, la Confederazione che riunisce le associazioni nazionali dei gelatieri della UE.

Istituita ufficialmente il  5 luglio 2012 dal Parlamento europeo di Strasburgo con la motivazione che: “tra i prodotti lattiero-caseari freschi, il gelato artigianale rappresenta l’eccellenza in termini di qualità e sicurezza alimentare e che valorizza i prodotti agro-alimentari di ogni singolo stato membro”, la Giornata assume un grande valore promozionale che dovrebbe coinvolgere il più possibile tutta la filiera del gelato artigianale.

Gli organizzatori della manifestazione, che si terrà in contemporanea nella maggior parte delle città europee ed in migliaia di città italiane, hanno anche indicato il gusto particolare che quest’anno sarà realizzato dai maestri gelatieri e distribuito durante lo svolgimento delle diverse iniziative: il “gelato al cioccolato d’Austria”, un gusto particolare di gelato al cioccolato, variegato con marmellata di albicocche.

La ricetta originale è stata elaborata dal maestro gelatiere Giorgio Zanatta.

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Non deve far preoccupare la scelta dell’Austria in quanto la stessa Artglace ha ribadito più volte e con forza, che per ogni giornata europea sarà strettamente seguito l’ordine alfabetico dei paesi aderenti.

Pochi ingredienti, freschi e genuini come il latte, la panna, le uova e il freddo, sia esso ottenuto con del normale ghiaccio, sia con l’aiuto dell’azoto liquido, restano comunque la base da cui partire per elaborare gusti via via diversi, sempre più coinvolgenti per il palato.

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E per dare il gusto o l’aroma ad una crema gelata, niente di meglio che l’impiego di ingredienti naturali e di stagione che, sapientemente abbinati anche tra loro, hanno conferito l’eccellenza della pasticceria italiana nel mondo.

Il gelato artigianale presuppone una produzione di piccole quantità, in un laboratorio, e la vendita diretta al consumatore, sebbene oggi si stiano sviluppando diverse catene di gelaterie, con un laboratorio centrale che distribuisce le miscele nei vari punti vendita dove un addetto poi si occupa dell’ultima fase produttiva – la mantecazione – prima di offrire il prodotto finito ai propri clienti.

Il gelato artigianale nasce quindi, come prodotto destinato all’immediato consumo e non necessita, come per il gelato fabbricato dalla grande industria, di essere conservato in celle frigorifere sino al momento della distribuzione e della vendita.

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Sotto questo punto di vista, quindi, il gelato artigianale e l’ice cream, che possono essere simili come aspetto, soprattutto se offerti in vaschette, rivelano una differenza sostanziale.

Tra i due prodotti esistono però altre differenze per quanto riguarda la produzione,  la temperatura di produzione e di conservazione del prodotto:

Non si desidera entrare nel merito dell’analisi tecnica ma tali differenze incidono notevolmente non solo nella freschezza del prodotto realizzato, ma sopra tutto nel sapore che evidenzia le materie prime e gli ingredienti che vengono scelti per la composizione dei diversi gusti.

E, non certo meno importante, gli amanti della linea saranno più tranquillizzati dal momento che la percentuale di grassi contenuti in un gelato artigianale è decisamente molto più bassa rispetto ad un alter ego industriale.

Questo anche se il maestro gelatiere usa prodotti semilavorati, dal momento che non sempre i diversi prodotti possono essere disponibili nella stagione in corso.

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Storicamente era l’artigiano stesso che preparava i “semilavorati” nella propria cucina  per semplificare il lavoro durante la stagione più impegnativa, per sopperire alla mancanza di materia prima fresca in alcuni periodi dell’anno o per standardizzare ingredienti di difficile dosaggio.

L’aumento dei volumi di vendita, le legislazioni in atto, la necessità di produrre gelati con garanzie igieniche indiscutibili e, non ultima, la necessità di avere una sistematica ricerca che adeguasse il prodotto alle esigenze e ai gusti del consumatore, ha visto quindi nascere un’industria specifica per il gelato artigianale che, partendo dall’esperienza iniziale degli artigiani, ha permesso la creazione di un importante anello della filiera assieme all’industria delle macchine e delle attrezzature.

Nel campo delle basi la ricerca si è orientata anche nel dare risposta a varie intolleranze (basi prive di zucchero, basi prive di lattosio) o a seguire i trend di mercato in merito alla presentazione in vetrina o all’ottenimento di etichette particolarmente “pulite” (prive di additivi, di emulsionanti, di ingredienti artificiali, nutrizionalmente bilanciate). Questi strumenti si pongono quindi come “base” (e da qui il nome) per la costruzione di un gelato che permetta all’artigiano esperto di esprimere la massima maestria e fantasia.

Le paste fanno, invece, parte dei composti aromatizzanti o rinforzanti del gusto.

A parte le paste oleose pure (nocciola, pistacchio, mandorla, pinolo) o composte (gianduia, cioccolato bianco), sulle quali, oltre a una ricerca di ottimizzazione del gusto vengono operate scrupolose analisi su pericolosi inquinanti (ocratossine, aflatossine) difficili da farsi su piccole produzioni “in proprio”, esiste tutta una gamma di paste dove l’eccellenza viene ricercata nella completezza e persistenza dell’aroma e del gusto, attingendo alle migliori realtà produttive italiane (uova, vini, frutta, spezie, latte) creando delle “conserve” ineccepibili dal punto di vista microbiologico (vengono aggiunte a freddo alla miscela quindi questo aspetto è fondamentale per la salubrità del prodotto) e dal punto di vista della tradizione italiana e della sua “esportabilità”.

Il connubio gelatiere-ingredienti composti è uno dei fattori che ha fatto grande la realtà del gelato artigianale italiano, rendendola un prodotto del Made in Italy riconosciuto all’estero come somma di qualità e di competenze nazionali.

I “cazzilli” di San Giuseppe

La Sicilia è ricca di tradizioni culinarie legate principalmente alle festività religiose o alle ricorrenze dei tanti Santi Patroni, ma anche a festività laiche che con la religione ci azzeccano poco o niente e che rientrano piuttosto nelle tradizioni commerciali e consumistiche non solo recenti.

La festa del papà è proprio una di queste, ha radici molto antiche ed è accompagnata spesso da festeggiamenti in grande stile come processioni, rievocazioni storiche ed iniziative più contenute.

Non poteva, di conseguenza, mancare un piatto che si tramanda ormai da molti anni e che viene riproposto spesso anche in occasioni diverse (cambiando il nome), sopra tutto nel periodo invernale, ma che ha alla base due ingredienti fondamentali e caratteristici di questa terra ancestrale: le arance ed il miele.

Parlo delle crespelle di riso, volgarmente conosciute e nominate nel dialetto siciliano come “cazzilli” proprio perchè richiamano il simbolo fallico e fecondo del padre.

Sono anche dette “crispiddi” o “zippole” ma il nome, come anticipavo poc’anzi, varia a seconda della festività in cui vengono preparate.

Le più conosciute, molto simili fra di loro, sono quelle catanesi e siracusane.

Altrettanto note sono quelle messinesi, che differiscono dalle precedenti per la presenza delle uova nell’impasto.
In tutte le zone della Sicilia esistono altre preparazioni che prendono lo stesso nome, ma sono del tutto diverse da quelle di riso.

Precisamente non sono dolci e sono costituite da un morbido involucro e farcite, più spesso. con ricotta o acciughe. Sono i “crispeddi c’anciova e cà ricotta facilmente reperibili nelle rosticcerie popolari, dove l’avventore subisce il fascino (difficilmente riproducibile in casa) della stimolante fragranza di questi prodotti che sono parte integrante delle tradizioni culinarie siciliane.

E proprio in occasione della festa del papà, celebrata il 19 marzo in Italia, vi propongo la classica ricetta di questo dolce calorico ma gradevole.

Le crespelle di riso al miele o “cazzilli” di San Giuseppe.

Ingredienti:

300 grammi di riso semi fino arborio (io ho usato l’Acquarone solo perchè in casa c’era questo)
1 litro di latte (meglio se crudo o comunque fresco)
20 grammi lievito di birra
60 grammi di zucchero semolato
150 grammi di farina per dolci o di riso
Un cucchiaino da caffè di cannella in polvere
La buccia grattugiata di un’arancia e di un limone
Un cucchiaino da caffè di sale fino
Olio di semi di arachide per friggere
200 grammi miele di zagara, possibilmente bio delle Madonie
Zucchero a velo q.b.

Procedimento:
Fate cuocere il riso con il latte a fiamma dolce, aggiustando con il sale, fin quando il latte risulterà completamente assorbito.

Continuare la cottura, aggiungendo se necessario acqua calda poco per volta. Il riso deve essere molto cotto, quindi non preoccupatevi eccessivamente dei tempi di cottura.
A fine cottura il riso dovrà essere una specie di risotto quasi scotto.

Toglietelo dal fuoco e fatelo raffreddare per almeno una mezz’ora. Dovrà essere moderatamente tiepido ma non freddo

In una zuppiera capiente unire la farina, lo zucchero, la cannella, la buccia grattugiata dell’arancia e del limone ed il lievito diluito in acqua moderatamente calda.

Aggiungete il riso e impastate il tutto in modo che gli ingredienti siano ben assorbiti; quindi ricoprire con pellicola da cucina e mettere il composto a riposare in luogo tiepido per circa due ore.

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Una volta che il composto sarà lievitato stendetelo su un tagliere, spolverato con farina, ad uno spessore di circa 2-3 cm.

Con un coltello infarinato staccare dei bastoncini e (aiutandovi sempre col coltello o con le mani infarinate) dategli la forma di un cilindretto.

A questo punto fare scivolare le crocchette ottenute nell’olio bollente e fatele friggere rigirandole di tanto in tanto per farle dorare uniformemente.

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Non appena saranno ben dorate sgocciolatele e poggiatele su carta assorbente da cucina.

Trasferitele poi su di un piatto da portata.

Scaldare il miele a bagnomaria e quando sarà ammorbidito, irrorate abbondantemente le crespelle. Infine spolverate con zucchero a velo e, se la gradite, cannella in polvere.

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Analisi del 2014

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2014 per questo blog.

Ecco un estratto:

Un “cable car” di San Francisco contiene 60 passeggeri. Questo blog è stato visto circa 3.000 volte nel 2014. Se fosse un cable car, ci vorrebbero circa 50 viaggi per trasportare altrettante persone.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.